di Francesco Chiucchiurlotto, Vice Presidente Anci Lazio.
Il
cd Milleproroghe, (angolo o corner del campo di calcio da cui la palla viene
rimessa in gioco dopo esserne uscita) rinvierà di un anno, dalla sua
conversione in legge, la normativa che dal DL n°78/2010 prescrive ai Comuni
sino a 5000 abitanti alcuni obblighi associativi. E’
chiaro ai più che tale normativa rappresenti il peggio del centralismo e del
dirigismo statuale e che sulla base di alcuni errati presupposti, peraltro
incostituzionali, hanno fatto perdere tempo e risorse all’intero sistema
ordinamentale degli enti locali. Abbiamo
quindi un anno, dieci mesi per la precisione, per trovare il bandolo della
matassa e affermare alcuni principi dai quali potranno discendere soluzioni
tecniche praticabili e soprattutto utili ed efficaci. Il primo principio è quello dell’autonomia municipale: l’equiordinazione delle componenti della Repubblica, Stato, Regioni, Città Metropolitane e Comuni (dando per scontato che si riesca a cancellare dal testo dell’art.114, le Province) pone quest’ultimi come interlocutori paritari con una potestà statutaria e regolamentare che non può essere invasa impunemente e spesso da norme regionali e talvolta statali, come oggi avviene.
Il portato epocale della Legge n°56/14 Del Rio, sta nell’aver unificato nel solo livello comunale le istituzioni comprese tra Regioni e Comuni, eliminando Province, Comunità Montane e Consorzi di funzioni. In un quadro così semplificato è veramente opportuno aggiungere un ulteriore ente, dotato di personalità giuridica e di potestà statutaria e regolamentare, quale l’Unione di Comuni? E’ opportuno, invece di normare il rapporto organizzatorio e funzionale tra Regioni e Comuni ai fini di un ridisegno di funzioni e servizi comunali e d’area vasta ed a rete, cambiare nome e governance alle Comunità Montane trasformandole in Unioni di Comuni Montani ed imporre l’associazionismo obbligatorio ai Comuni sino a 5000 abitanti?
E’
opportuno al fine dichiarato di conseguire risparmi di gestione coinvolgere la
natura politico programmatica dei Comuni attraverso il ruolo dei Sindaci,
peraltro a gratis e non investire del tema gestionale chi ne è preposto, cioè
la dirigenza?
Proviamo
a rispondere:
Un
quadro ordinamentale composto da Stato, Regioni, Comuni ha il pregio della
semplicità e della chiarezza delle attribuzioni; afferma il “chi fa che cosa” senza doppioni di
attribuzione nè confusione di ruoli: l’ente Regione restituisce la funzione
amministrativa ai Comuni, per intero e con i soli limiti costituzionali.
(soltanto questo porterebbe risparmi di qualche miliardo di euro); organizza i
Comuni per livelli di competenza e interloquisce di programmazione con le
Province.
Quindi
occorre una normativa statale secca ed essenziale e la Del Rio così com’è è un
buon inizio, laddove indica la strada delle aree omogenee come aggregati
intermedi e quella delle Regioni nelle attribuzioni alle province.
La
Del Rio è fortemente innovativa perché ha operato quello che la 78/10 ha
vanamente tentato di fare in termini di obbligatorietà: ha associato i Comuni,
tutti, in un ente o in un livello istituzionale (vedremo) chiamato Provincia;
sono tutti lì, insieme in attesa che si adottino politiche di semplificazione,
razionalizzazione, programmazione, risparmio, surroga, coordinamento ecc.
Come
si fa a non vedere che c’è una occasione irripetibile di buon governo del
territorio a portata di mano, che chiede un legislatore regionale illuminato e
capace, che ponga mano allo snellimento, graduale e guidato, delle Regioni (veri
mostri gestionali ed idrovore finanziarie) con una devoluzione programmata
verso tutti i Comuni.
I
Comuni a loro volta sono chiamati ad un ammodernamento necessario e ad un
associazionismo volontario graduato ed attagliato sul tipo di funzioni e
servizi in campo: non le dieci funzioni tout court ma convenzioni, unioni,
consorzi di servizi in un primo livello di competenza; aree omogenee, sulla
base territoriale degli attuali Distretti Sociosanitari in un secondo livello
di competenza; province o quel che
saranno dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in un terzo livello di
competenza di funzioni e servizi ma stavolta anche di rappresentanza politica
ed interlocuzione con l’ente Regione.
In
questo schema tutti i Comuni sono coinvolti e non soltanto quelli sino a 5000
abitanti, con effetti positivi di sinergia e coordinamento; la rappresentanza
politica essenziale nel rapporto del territorio con la Regione, diviene
semplificata sino alla sintesi provinciale e soprattutto univoca nel livello
comunale; lo strumento legislativo regionale potrà effettuare interventi di
dettaglio, scendendo nella concretezza del territorio piuttosto che
nell’astrazione della dottrina, come purtroppo è avvenuto sinora con i guasti
sin troppo evidenti.
Ad
esempio: se una Comunità Montana non ha mai funzionato, se storicamente ha
registrato solo instabilità e perdite d’esercizio, perché deve trasformarsi in
Unione di Comuni Montani? C’è qualcosa di miracoloso e di taumaturgico nel
modello Unione?
Se
in una Unione di Comuni Montani ci sono Enti Riserva o Parchi naturalistici,
non è l’occasione di unificarne la gestione? Il servizio idrico integrato, o
altri servizi a rete e d’area vasta, sono dentro un ambito naturale, quello
provinciale e quindi se ne occupi la nuova provincia, oppure dobbiamo creare il
doppione degli Ambiti Territoriali Ottimali di funesta memoria?
In
sintesi dobbiamo invertire la rotta fidando nell’autonomia degli enti locali e
nel principio di sussidiarietà che resta un caposaldo normativo europeo,
attuale e opportuno, e soprattutto con la consapevolezza che si avvia un
processo democratico di trasformazione di media e lunga durata, che deve essere
più pragmatico che dirigista, più empirico che dottrinario, più vicino ai
cittadini, protagonisti e solo destinatari di tale nuova stagione.